martedì 30 settembre 2014

Violazione degli obblighi di assistenza familiare - A prescindere dallo stato di bisogno, commette reato chi non si attivi per garantire assistenza all'altro coniuge

Il delitto previsto dall'art. 570 c.p., nella forma di cui al comma 1 (sottrazione dagli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge), si configura, indipendentemente dallo stato di bisogno della persona offesa, qualora l'obbligato non si attivi per rendere possibile l'assistenza alla stessa. E nel caso in cui questa cambi il proprio domicilio, il primo è tenuto a compiere quelle attività più immediatamente e facilmente esperibili per permettere l'adempimento del proprio obbligo.
Ai sensi del comma 1 dell'art. 570 c.p., è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da € 103,00 a € 1.032,00 chiunque, abbandonando il domicilio domestico o, comunque, serbando una condotta contraria all'ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenzainerenti alla responsabilità genitoriale (già potestà dei genitori a seguito della modifica apportata dall'art. 93, D.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) o alla qualità di coniuge. A sua volta, il comma 2 dispone che le suddette pene si applicano congiuntamente a chi:
1) malversa o dilapida i beni del figlio minore o del coniuge;
2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, oppure inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti dal numero 1) e, quando il reato è commesso nei confronti dei minori, dal numero 2) di cui sopra (comma 3). Infine, le disposizioni di questo articolo non si applicano se il fatto è preveduto come più grave reato da un'altra disposizione di legge (comma 4).
L'incriminazione tende a rafforzare alcuni obblighi che l'ordinamento impone a determinate persone nell'ambito della famiglia e, in particolare, gli obblighi di assistenza. Poiché "assistenza" vuol dire "aiuto", non rientra nella previsione la violazione di doveri di natura diversa che sono sanciti dal codice civile (artt. 143, 147 ecc.) come, ad esempio, il dovere di fedeltà imposto ai coniugi. Nessun dubbio, peraltro, che, data la natura e la funzione etico-sociale della famiglia, il contenuto dei predetti obblighi può essere non solo materiale o economico, ma anche semplicemente morale.
In proposito, come ritengono le Sezioni Unite, dottrina e giurisprudenza civilistica sono convergenti nel ricavare dall'art. 143 c.c. [che, sotto la rubrica «Diritti e doveri reciproci dei coniugi», specifica al comma 3 che "dal matrimonio deriva l'obbligo reciproco (...) all'assistenza morale e materiale"] una nozione ampia di assistenza, coincidente con la cura e l'aiuto reciproco in ogni circostanza. Per quanto interessa in questa sede, negli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge rientrano anche quelli di assistenza materiale concernenti il rispetto e l'appagamento delle esigenze economicamente valutabili dell'altro coniuge (aiuto nel lavoro, nello studio, nella malattia, ecc.) e la corresponsione dei mezzi economici necessari per condurre il tenore di vita della famiglia. Obblighi che, pur attenuati, permangono anche in caso di separazione personale dei coniugi, prevedendo l'art. 146 c.c., la sospensione del diritto all'assistenza morale e materiale nei confronti del coniuge che, allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare, rifiuta di tornarvi. Invero, i bisogni della famiglia, al cui soddisfacimento i coniugi sono tenuti a norma dell'art. 143 c.c., non si esauriscono in quelli, minimi, al di sotto dei quali verrebbero in gioco la stessa comunione di vita e la stessa sopravvivenza del gruppo, ma possono avere, nei singoli contesti familiari, un contenuto più ampio, soprattutto in quelle situazioni caratterizzate da ampie e diffuse disponibilità patrimoniali dei coniugi, situazioni le quali sono anch'esse riconducibili alla logica della solidarietà coniugale (Cass. Pen., Sez. Unite, 31 gennaio 2013, n. 23866).
Da ultimo, si discute se l'art. 570 c.p. configuri un solo o più reati: la dottrina prevalente (cfr., per tutti, F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, 10a ed., Milano, 1992, 421 ss), che si condivide, ritiene che si tratti di tre fattispecie distinte, e ciò per la considerazione che né la seconda e né la terza ipotesi possono considerarsi forme circostanziate della prima, in quanto, per la diversità dei soggetti cui si riferiscono, non sono con essa in rapporto di specialità. Con l'effetto, in applicazione dei principi generali, che vi è concorso di reati quando si verifichi più di una delle dette condotte.
In primo luogo, in ordine alla prima ipotesi, va osservato che per costituire "l'abbandono del domicilio domestico" non basta un qualsiasi allontanamento dal tetto familiare, ma è necessario che esso sia accompagnato dall'intenzione di non farvi ritorno, almeno per un lungo periodo di tempo. L'abbandono, inoltre, deve essere ingiustificato (non incorrendo nel reato, ad esempio, chi si allontana per ragioni di lavoro o in seguito a una malattia) e ad esso è parificato il persistente rifiuto di coabitazione; col che, cade nel cono d'ombra del comma 1 il coniuge che si rifiuta (senza giusto motivo) di seguire l'altro nella residenza concordata in precedenza o, in difetto, fissata dal giudice ai sensi degli artt. 144 e 145 c.c..
Assai difficile è, poi, l'esatta identificazione dell'altra modalità con cui il delitto può commettersi, e cioè il fatto di "serbare" una «condotta contraria all'ordine o alla morale delle famiglie». In passato, con soluzioni obiettivamente criticabili, vi si è fatto rientrare l'incesto che non ha causato il pubblico scandalo, l'adulterio non punibile per difetto di querela, il fatto del marito che si ubriaca o gioca d'azzardo e, addirittura, il rifiuto del coniuge all'adempimento del cd. debitum coniugale (soluzione, quest'ultima, da respingere con forza, non solo perché la prestazione sessuale non è un diritto dell'un coniuge verso l'altro, ma anche perché essa non può, per nessun verso, comprendersi nel concetto di assistenza). Pur dinanzi a queste bizzarre prospettazioni, non va, però, mai dimenticato un fatto essenziale: quello che il codice definisce "abbandono del domicilio" oppure "condotta contraria all'ordine o alla morale delle famiglie" non è mai punito di per se stesso, ma solo quando abbia come risultato la sottrazione agli obblighi dell'assistenza familiare. Non basta, quindi, un qualsiasi fatto illecito o immorale a costituire questo reato, in quanto la condotta sarà punibile solo in quanto da essa ne derivi, come conseguenza, la violazione degli obblighi assistenziali inerenti alla responsabilità genitoriale o alla qualità di coniuge. Così, per converso, una tale violazione potrà essere addebitata al soggetto attivo soltanto se avviene attraverso le due modalità di condotta alternativamente indicate dalla norma.
In secondo luogo, relativamente alla seconda ipotesi di cui al comma 2 n. 1, con l'incriminazione della "malversazione" o della "dilapidazione" dei beni del figlio minore o del coniuge si mira a garantire l'onesta amministrazione del patrimonio delle persone predette.
In terzo e ultimo luogo, la terza fattispecie prevista dal comma 2 n. 2, di maggiore diffusione nei nostri tribunali, si verifica allorquando taluno fa mancare i "mezzi di sussistenza" ai discendenti minori, agli ascendenti o al coniuge non legalmente separato per sua colpa (ora, con addebito). In proposito, va precisato che la locuzione "mezzi di sussistenza" non coincide con quella degli "alimenti" disciplinati dal codice civile: essa, infatti, indica ciò che è indispensabile per vivere, mentre i secondi comprendono quanto occorre per soddisfare i bisogni della vita, secondo la condizione economica e sociale del beneficiario (stabiliti, ad esempio, in sede di separazione). Ne deriva che l'art. 570, comma 2 n. 2, c.p., non sanziona la violazione degli obblighi alimentari legalmente accertati, ma solo il rifiutare o far mancare i mezzi necessari per vivere: esula, pertanto, il delitto se il beneficiario, pur avendo diritto agli alimenti, non versa in condizioni di bisogno. Sul punto, infatti, la Suprema Corte afferma che in regime di separazione personale tra coniugi, stante la diversa natura dell'assegno di mantenimento, volto a conservare la situazione patrimoniale quale era in seno al matrimonio, "non vi è interdipendenza tra il reato de qua e l'assegno liquidato dal giudice civile, sia che tale assegno venga corrisposto sia che non venga corrisposto agli aventi diritto". Il provvedimento del giudice civile, infatti, non fa stato nel processo penale, né in ordine alle condizioni economiche dell'obbligato né per quanto riguarda lo stato di bisogno degli aventi diritto, circostanze che devono essere entrambe accertate in concreto. Di conseguenza, la mancata corresponsione, anche parziale, dell'assegno di mantenimento non rende, per ciò solo, responsabile l'obbligato del reato di cui all'art. 570, comma 2, n. 2, c.p., mentre anche il completo adempimento dell'obbligo civile potrebbe lasciare spazio alla configurabilità del reato, dovendosi distinguere dalle nozioni civilistiche di "mantenimento" e di "alimenti" quella dei "mezzi di sussistenza", che si identifica in ciò che è strettamente indispensabile, a prescindere dalle condizioni sociali o di vita pregressa degli aventi diritto, come il vitto, l'abitazione, i canoni per utenze indispensabili, i medicinali, le spese per l'istruzione e il vestiario (Cass. Pen., Sez. VI, 13 febbraio 2007, n. 14103; Cass. Pen., Sez. VI, 10 aprile 2001, n. 27851).
L'obbligo giuridico di prestare gli alimenti, peraltro, costituisce un presupposto di questa specifica fattispecie, col che, mancando tale obbligo, l'illecito non si perfeziona, come non sussiste nel caso che l'obbligo stesso sia stato adempiuto (dall'obbligato, ovviamente, non potendosi escludere la responsabilità se il mantenimento avvenga grazie l'intervento di terzi). Infine, in caso di scioglimento del matrimonio, si ritiene che l'obbligo di assistenza economica tra coniugi permanga fino a quando il beneficiario non passi a nuove nozze o, secondo taluno, non instauri una stabile convivenza di fatto.
La Suprema Corte ha stabilito un importante principio: sui soggetti interessati da un obbligo di assistenza familiare grava un dovere di diligenza, ossia di attivazione al fine di rendere possibile l'assistenza medesima, a nulla rilevando, come nel caso di specie, che il coniuge beneficiario non avesse sollecitato il dovuto, non potendo, tale inerzia, essere interpretata come una rinuncia al proprio diritto o, al più, come prova di assenza di uno stato di bisogno da soddisfare.
In proposito, la Corte ha considerato "antidoveroso" l'atteggiamento del marito, in quanto, preso atto del respingimento dei vaglia postali spediti all'indirizzo usuale della moglie, si è limitato a sospendere il versamento del contributo mensile, senza attivarsi in alcun modo per porre rimedio all'inadempimento, come ad esempio cercare di interloquire coi figli per conoscere la nuova residenza della madre (considerata ipotesi tutt'altro che congetturale).
Quanto, infine, al motivo relativo allo "stato di bisogno" (pretermesso a parere del ricorrente), la Corte ha ritenuto irrilevante tale presupposto, sulla scorta che vi è stata la derubricazione del reato dall'ipotesi di cui al comma 2 n. 2 a quella, meno grave, di cui al comma 1 (il quale non lo richiede). Con la conseguenza che per la consumazione della condotta criminosa è sufficiente la traumatica e prolungata interruzione del contributo materiale alle esigenze di vita della persona offesa, integrando, così, quella violazione dei "doveri di assistenza" cui si riferisce, appunto, la disposizione di cui al comma 1.
Cass. Pen., Sez. VI, 12 settembre 2014, n. 37648

venerdì 26 settembre 2014

Separazione personale: insufficiente la convivenza per provare la riconciliazione

Per provare la riconciliazione tra coniugi separati, non è sufficiente che i medesimi abbiano ripristinato la convivenza, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale.
La Suprema Corte ha ritenuto non censurabile la pronuncia impugnata con la quale la corte territoriale, confermando la sentenza di primo grado, aveva dichiarato la separazione personale tra i coniugi. In particolare, quanto al prospettato motivo di appello fondato proprio su di una intervenuta riconciliazione tra le parti, attestata la mancata interruzione coabitazione, la corte aveva affermato che in primo grado entrambe le parti avevano richiesto reciprocamente l'addebito della separazione, con condotta del tutto incompatibile con la dedotta riconciliazione.
Nel correggere la motivazione del giudice del merito ex art. 384, ultimo comma, c.p.c., la Corte ha osservato che l'art. 154 c.c. stabilisce che la riconciliazione determina l'abbandono della domanda di separazione personale, ed il successivo art. 157 c.c. ne regola gli effetti successivamente alla sentenza con la quale è stata dichiarata la separazione personale. In nessuna delle due norme, precisa la Cassazione, la riconciliazione può essere ricondotta ad un fatto impeditivo, qualificabile come eccezione in senso stretto, trattandosi della sopravvenienza di una nuova condizione da accertarsi anche officiosamente dal giudice ancorché sulla base delle deduzioni ed allegazioni delle parti. Il regime giuridico è nettamente diverso nel giudizio di divorzio in quanto l'art. 3 L. n. 898 del 1970, stabilisce espressamente che l'interruzione della separazione, in quanto fatto specificamente impeditivo della realizzazione della condizione temporale stabilita nella medesima disposizione, deve essere eccepita dalla parte convenuta; ne consegue, conclude la pronuncia in epigrafe, limitatamente a questa ipotesi, l'improponibilità per la prima volta in appello dell'eccezione. Nella specie, tuttavia, la parte che l'ha invocata non ha indotto alcuna allegazione o mezzo istruttorio al fine di fornirne la dimostrazione né in primo né in secondo grado, ma, al contrario, è emerso che la proposizione della domanda riconvenzionale di addebito ed il comportamento processuale univocamente tenuto nel procedimento di primo grado abbiano fornito forti indizi contrari. Della opposta riconciliazione, come rilevato dal giudice del merito, in conclusione, è mancata del tutto la prova.
Cass. Civ., Sez. I, 17 settembre 2014, n. 19535

Doppio cognome ai figli: il testo approvato dalla Camera

Il 24 settembre 2014, l'Assemblea della Camera ha approvato un testo unificato di alcune proposte di legge volto a modificare la disciplina di attribuzione del cognome ai figli. Il provvedimento passa ora al Senato.
L'Italia si adegua così alla recente sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo dello scorso 7 gennaio aveva condannato l'Italia per violazione dei diritti umani.
La riforma si applicherà solo alle dichiarazioni di nascita successive all'entrata in vigore di un apposito regolamento attuativo, da adottarsi entro dodici mesi.
In particolare, il provvedimento prevede che al figlio nato nel matrimonio, su accordo dei genitori, possa essere attribuito uno dei seguenti cognomi:
- il cognome del padre;
- il cognome della madre;
- il cognome di entrambi, nell'ordine concordato.
In caso di mancato accordo, l'attribuzione seguirà l'ordine alfabetico, di entrambi i cognomi dei genitori.
Stessa regola per il figlio nato fuori dal matrimonio che venga riconosciuto contemporaneamente da entrambi i genitori.
Se il figlio è riconosciuto da un solo genitore, ne assume il cognome e laddove l'altro genitore effettui il riconoscimento in un secondo momento (tanto volontariamente quanto a seguito di accertamento giudiziale), il cognome di questi si aggiunge al primo solo con il consenso del genitore che ha riconosciuto il figlio per primo nonché, se ha già compiuto 14 anni, del figlio stesso.
Il testo unificato inoltre:
- stabilisce che i figli degli stessi genitori, registrati all'anagrafe dopo il primo figlio, portano lo stesso cognome di quest'ultimo;
- disciplina l'attribuzione del cognome all'adottato maggiorenne;
- garantisce al figlio maggiorenne, cui sia stato attribuito in base alla legge vigente al momento della nascita il solo cognome paterno o materno, la possibilità di aggiungere al proprio il cognome della madre o del padre.
Documento Camera dei deputati, n. 166/1

www.studiolegalemms.it

giovedì 25 settembre 2014

DIRITTI E DOVERI DEI CONIUGI - MANTENIMENTO DELLA PROLE – FIGLIO ULTRAQUARANTENNE DISOCCUPATO – TUTELA – LIMITI.

La Prima Sezione della Corte di Cassazione ha affermato, con riguardo ai limiti relativi all’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, che non è tutelabile il figlio ultraquarantenne disoccupato il quale, pur vivendo in un contesto di crisi economica e sociale, rifiuti ingiustificatamente di acquisire l’autonomia economica tramite l’impegno lavorativo e chieda il mantenimento da parte dei genitori.
Sentenza n. 18076 del 20/08/2014

www.studiolegalemms.it

Assegno di divorzio: presupposti e regole per accertamento e consequenziale liquidazione

In tema di assegno divorzile, mentre il diritto del coniuge deve essere accertato verificando la disponibilità da parte del richiedente di mezzi economici adeguati a consentirgli il mantenimento di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, la liquidazione dell'importo dovuto, una volta riconosciuto il relativo diritto per non essere il coniuge richiedente in grado di mantenere con i propri mezzi detto tenore di vita, deve essere compiuta valutando in concreto, anche in rapporto alla durata del matrimonio, le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, il reddito di entrambi.
ll diritto del coniuge all'assegno divorzile deve essere accertato verificando la disponibilità da parte del richiedente di mezzi economici adeguati a consentirgli il mantenimento di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, (e quello che poteva ragionevolmente configurarsi sulla base delle aspettative maturate nel corso del rapporto), mentre la liquidazione dell'importo dovuto, una volta riconosciuto il relativo diritto per non essere il coniuge richiedente in grado di mantenere con i propri mezzi detto tenore di vita, deve essere compiuta valutando in concreto, anche in rapporto alla durata del matrimonio:
- le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione,
- il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune,
- il reddito di entrambi.
Tali principi, già enunciati dal giudice di legittimità, sono stati ora ribaditi in una recente sentenza.
Nel caso di specie, la Suprema Corte, rigettando il ricorso dell'ex coniuge obbligato, ha confermato la decisione con la quale la corte del merito, in parziale riforma della decisione di prime cure, aveva rideterminato, in una somma pari a diecimila euro, la domanda di attribuzione di un assegno post-matrimoniale per il mantenimento formulata dall'ex coniuge beneficiario.
Nella particolare fattispecie, osserva la Cassazione, i suddetti criteri sono stati correttamente applicati dalla corte di appello, la quale ha posto a confronto la precarietà della situazione economica della beneficiaria «non dedita ad alcuna attività di lavoro durante la ultraventennale convivenza coniugale», con la posizione economica, indubbiamente più agiata, connessa all'attività libero-professionale esercitata dall'onerato, concludendo, pertanto, per la configurabilità di un apprezzabile deterioramento delle condizioni economiche dell'intimata, in conseguenza dello scioglimento del matrimonio, tale da giustificare l'imposizione a carico del ricorrente dell'obbligo di corrispondere un contributo volto a ristabilire l'equilibrio tra le parti.
Cass. Civ., Sez. I, 17 settembre 2014, n. 19529

www.studiolegalemms.it

Matrimonio nullo se il marito è mammone ed anaffettivo

Non esistono ostacoli al riconoscimento nell'ordinamento italiano dell'efficacia della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario laddove risulti accertato lo stato di un coniuge che, a causa delle sue condizioni psichiche, non abbia saputo assumere l'obbligo -da ritenersi essenziale sulla base del contenuto dei canoni 1055 § 1, 1057 § 2, 1056 e 1055, sull'essenza, le proprietà e le finalità istituzionali del matrimonio- di quella minima integrazione psicosessuale che il matrimonio richiede ("remedium concupiscentiae"), mostrandosi anaffettivo ed indifferente nei confronti dell'altro coniuge. Tale il principio che può essere tratto da una recente decisione del giudice di legittimità.
La delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio per "incapacitas (psichica) assumendi onera coniugalia", osserva la Cassazione, non trova ostacolo nella diversità di disciplina dell'ordinamento canonico rispetto alle disposizioni del codice civile in tema di invalidità del matrimonio per errore (essenziale) su una qualità personale del consorte e precisamente sulla ritenuta inesistenza in quest'ultimo di malattie (fisiche o psichiche) impeditive della vita coniugale, poiché detta diversità non investe un principio essenziale dell'ordinamento italiano, qualificabile come limite dell'ordine pubblico. Inoltre, precisa ancora la decisione in epigrafe in conformità a quanto statuito di recente, in tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della invalidità del matrimonio concordatario, deve negarsi l'esistenza, nell'ordinamento nazionale, di un principio di ordine pubblico secondo il quale il vizio che inficia il matrimonio possa essere fatto valere solo dal coniuge il cui consenso sia viziato.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza con la quale la corte distrettuale aveva dichiarato l'efficacia della sentenza ecclesiastica pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo, ratificata dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Ligure e resa esecutiva dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, con la quale era stata dichiarata la nullità del matrimonio concordatario contratto dai coniugi.
Cass. Civ., Sez. I, 18 settembre 2014, n. 19691

www.studiolegalemms.it

mercoledì 24 settembre 2014

Azione di spoglio: il convivente è legittimato anche nei confronti dell'erede.

Il convivente more uxorio è legittimato all'azione possessoria di reintegrazione la quale può essere esercitata tanto nei confronti dell'altro convivente ospitante, quanto nei confronti degli stessi eredi di costui.
La convivenza "more uxorio", quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Ne consegue che l'estromissione violenta o clandestina dall'unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest'ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l'azione di spoglio. Il principio, già enunciato dal giudice di legittimità, è stato ora ribadito in una recente decisione.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto incensurabile la sentenza con la quale la corte del merito aveva confermato la pronuncia di primo grado che aveva accolto la domanda di reintegrazione nel possesso di un appartamento di cui la ricorrente, convivente "more uxorio" con persona poi deceduta, era stata privata a causa della condotta del resistente, nipote del "de cuius", che vi si era introdotto clandestinamente impedendole l'accesso.
Osserva la Corte regolatrice che anche dopo la dissoluzione del rapporto di coppia così stabilizzato -nel caso qui in esame, per la morte del convivente- non è consentito al convivente proprietario -sempre nel caso qui in esame, all'erede che subentra nell'identica posizione- di ricorrere alle vie di fatto per estromettere l'altro dall'abitazione, perché il canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone al legittimo titolare che intenda recuperare, com'è suo diritto, l'esclusiva disponibilità dell'immobile, di avvisare e di concedere un termine congruo per reperire altra sistemazione. Pertanto, l'azione possessoria è comunque esperibile anche nei confronti dell'erede del proprietario il quale, pur subentrando per "fictio iuris" nel possesso "de cuius" non è legittimato ad estromettere dal possesso con violenza o clandestinità colui che non poteva esserne estromesso da "de cuius".
Cass. Civ., Sez. II, 15 settembre 2014, n. 19423

www.studiolegalemms.it


martedì 23 settembre 2014

Obblighi di mantenimento: l'inclusione in via forfettaria nell'assegno può recare grave nocumento alla prole.

In una recente pronuncia la Suprema Corte ha ribadito che l'inclusione delle spese straordinarie in via forfettaria nell'ammontare dell'assegno posto a carico di uno dei genitori può rivelarsi in netto contrasto con il principio di proporzionalità e di adeguatezza del mantenimento.
In tema di mantenimento della prole, devono intendersi spese "straordinarie" quelle che, per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità esulano dall'ordinario regime di vita dei figli, cosicché la loro inclusione in via forfettaria nell'ammontare dell'assegno, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dall'art. 155 c.c. e con quello dell'adeguatezza del mantenimento, nonché recare grave nocumento alla prole, che potrebbe essere privata, non consentendolo le possibilità economiche del solo genitore beneficiario dell'assegno "cumulativo", di cure necessarie o di altri indispensabili apporti; pertanto, pur non trovando la distribuzione delle spese straordinarie una disciplina specifica nelle norme inerenti alla fissazione dell'assegno periodico, deve ritenersi che la soluzione di stabilire in via forfettaria ed aprioristica ciò che è imponderabile ed imprevedibile, oltre ad apparire in contrasto con il principio logico secondo cui soltanto ciò che è determinabile può essere preventivamente quantificato, introduce, nell'individuazione del contributo in favore della prole, una sorta di alea incompatibile con i principi che regolano la materia.
Il principio già enunciato dal giudice di legittimità, è stato ribadito in una recente decisione. In applicazione dello stesso, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata non essendosi la corte del merito attenuta a tale principio ed avendo anzi la stessa illegittimamente negato al genitore affidatario il rimborso delle spese straordinarie già sostenute per la prole, escludendone immotivatamente il carattere appunto straordinario.
Cass. Civ., Sez. I, 8 settembre 2014, n. 18869

www.studiolegalemms.it

Affidamento condiviso: derogabile solo se risulta pregiudizievole per l'interesse del minore.

In tema di separazione personale dei coniugi, alla regola dell'affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l'interesse del minore.
Nella separazione personale dei coniugi, all'affidamento condiviso può derogarsi solo ove l'istituto risulti pregiudizievole all'interesse del minore, non potendo tale affidamento comunque ritenersi precluso dalla conflittualità, ancorché profonda, dei coniugi. Il principio, già enunciato dal giudice di legittimità, è stato ribadito in una recente ordinanza.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto non censurabile la sentenza, impugnata da entrambi i coniugi, con la quale la corte distrettuale, in riforma della pronuncia di prime cure, aveva disposto l'affidamento della figlia minore al padre, precisando le modalità di visita della madre, con contributo da parte di quest'ultima pari ad un importo di seicento euro mensili. Corretta, nella particolare vicenda, appare secondo la Cassazione, la valutazione operata dal giudice del merito che, sulla scorta delle valutazioni peritali, aveva individuato l'emersione di un rapporto stretto e fiducioso con il padre, ed un altro, assai problematico, con la madre, tale da giustificare l'affido esclusivo al primo ed il collocamento della minore presso di lui.
Cass. Civ., Sez. VI, Ord., 11 settembre 2014, n. 19181

www.studiolegalemms.it

Separazione consensuale: non più invocabile la simulazione dopo l'omologazione dell'accordo.

Pur non potendosi dubitare della natura negoziale (quand'anche non contrattuale) dell'accordo che dà sostanza e fondamento alla separazione consensuale tra coniugi, e pur non essendo ravvisabile, nell'atto di omologazione, una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti o di governo dell'autonomia dei coniugi, è da escludere l'impugnabilità per simulazione dell'accordo di separazione una volta omologato, giacché l'iniziativa processuale diretta ad acquisire l'omologazione, e quindi la condizione formale di coniugi separati, con le conseguenti implicazioni giuridiche, si risolve in una iniziativa nel senso della efficacia della separazione che vale a superare il precedente accordo simulatorio, ponendosi in antitesi con esso, essendo logicamente insostenibile che i coniugi possano "disvolere" con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso "volere" l'emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a detta condizione. Il principio, che trova un solo precedente nella giurisprudenza di legittimità, è stato nuovamente affermato dal giudice di legittimità in una recente pronuncia.
Secondo la Corte, all'orientamento espresso nel principio deve essere data continuità, considerando, quale decisiva circostanza che, nel momento in cui i coniugi convengono, nello spirito e nella prospettiva della loro intesa simulatoria, di chiedere al Tribunale l'omologazione della loro (apparente) simulazione esse in realtà concordano nel voler conseguire il riconoscimento di uno "status" dal quale la legge fa derivare effetti irretrattabili tra le parti e nei confronti dei terzi, salve le ipotesi della riconciliazione e dello scioglimento definitivo del vincolo. Con la separazione giudiziale e con quella consensuale omologata, osserva la pronuncia in epigrafe, vengono meno a carico dei coniugi gli obblighi di carattere morale derivanti dal matrimonio, come quelli alla coabitazione, di fedeltà e di assistenza, prevedendo l'art. 156 c.c., nella formulazione introdotta dal legislatore della riforma del diritto di famiglia, soltanto obblighi di natura patrimoniale; che l'art. 232, comma 2, c.c. fa venir meno la presunzione di concepimento nel matrimonio del figlio nato decorsi trecento giorni dalla pronuncia della separazione giudiziale o dalla omologa di quella consensuale o dalla data di comparizione dei coniugi davanti al giudice quando sono stati autorizzati a vivere separati; che, ai sensi dell'art. 191 c.c., la separazione personale determina lo scioglimento della comunione dei beni; che, ancora, il regolamento per la revisione dell'ordinamento dello stato civile di cui al D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, prevede, all'art. 69, lett. d), che della omologazione della separazione consensuale sia fatta annotazione negli atti di matrimonio. Nella situazione considerata, la volontà di conseguire detto "status" è effettiva e non simulata: l'iniziativa processuale diretta ad acquisire la condizione formale di coniugi separati, con le conseguenti implicazioni giuridiche, si risolve in una iniziativa nel senso della efficacia della separazione che vale a superare e neutralizzare il precedente accordo simulatorio, ponendosi in antitesi con esso. Appare invero logicamente insostenibile, conclude la Cassazione, che i coniugi possano disvolere con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso volere l'emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a detta condizione: l'antinomia tra tali determinazioni non può trovare altra composizione che nel considerare l'iniziativa processuale come atto incompatibile con la volontà di avvalersi della simulazione.
Cass. Civ., Sez. I, 12 settembre 2014, n. 19319

www.studiolegalemms.it