martedì 30 settembre 2014

Violazione degli obblighi di assistenza familiare - A prescindere dallo stato di bisogno, commette reato chi non si attivi per garantire assistenza all'altro coniuge

Il delitto previsto dall'art. 570 c.p., nella forma di cui al comma 1 (sottrazione dagli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge), si configura, indipendentemente dallo stato di bisogno della persona offesa, qualora l'obbligato non si attivi per rendere possibile l'assistenza alla stessa. E nel caso in cui questa cambi il proprio domicilio, il primo è tenuto a compiere quelle attività più immediatamente e facilmente esperibili per permettere l'adempimento del proprio obbligo.
Ai sensi del comma 1 dell'art. 570 c.p., è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da € 103,00 a € 1.032,00 chiunque, abbandonando il domicilio domestico o, comunque, serbando una condotta contraria all'ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenzainerenti alla responsabilità genitoriale (già potestà dei genitori a seguito della modifica apportata dall'art. 93, D.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) o alla qualità di coniuge. A sua volta, il comma 2 dispone che le suddette pene si applicano congiuntamente a chi:
1) malversa o dilapida i beni del figlio minore o del coniuge;
2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, oppure inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti dal numero 1) e, quando il reato è commesso nei confronti dei minori, dal numero 2) di cui sopra (comma 3). Infine, le disposizioni di questo articolo non si applicano se il fatto è preveduto come più grave reato da un'altra disposizione di legge (comma 4).
L'incriminazione tende a rafforzare alcuni obblighi che l'ordinamento impone a determinate persone nell'ambito della famiglia e, in particolare, gli obblighi di assistenza. Poiché "assistenza" vuol dire "aiuto", non rientra nella previsione la violazione di doveri di natura diversa che sono sanciti dal codice civile (artt. 143, 147 ecc.) come, ad esempio, il dovere di fedeltà imposto ai coniugi. Nessun dubbio, peraltro, che, data la natura e la funzione etico-sociale della famiglia, il contenuto dei predetti obblighi può essere non solo materiale o economico, ma anche semplicemente morale.
In proposito, come ritengono le Sezioni Unite, dottrina e giurisprudenza civilistica sono convergenti nel ricavare dall'art. 143 c.c. [che, sotto la rubrica «Diritti e doveri reciproci dei coniugi», specifica al comma 3 che "dal matrimonio deriva l'obbligo reciproco (...) all'assistenza morale e materiale"] una nozione ampia di assistenza, coincidente con la cura e l'aiuto reciproco in ogni circostanza. Per quanto interessa in questa sede, negli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge rientrano anche quelli di assistenza materiale concernenti il rispetto e l'appagamento delle esigenze economicamente valutabili dell'altro coniuge (aiuto nel lavoro, nello studio, nella malattia, ecc.) e la corresponsione dei mezzi economici necessari per condurre il tenore di vita della famiglia. Obblighi che, pur attenuati, permangono anche in caso di separazione personale dei coniugi, prevedendo l'art. 146 c.c., la sospensione del diritto all'assistenza morale e materiale nei confronti del coniuge che, allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare, rifiuta di tornarvi. Invero, i bisogni della famiglia, al cui soddisfacimento i coniugi sono tenuti a norma dell'art. 143 c.c., non si esauriscono in quelli, minimi, al di sotto dei quali verrebbero in gioco la stessa comunione di vita e la stessa sopravvivenza del gruppo, ma possono avere, nei singoli contesti familiari, un contenuto più ampio, soprattutto in quelle situazioni caratterizzate da ampie e diffuse disponibilità patrimoniali dei coniugi, situazioni le quali sono anch'esse riconducibili alla logica della solidarietà coniugale (Cass. Pen., Sez. Unite, 31 gennaio 2013, n. 23866).
Da ultimo, si discute se l'art. 570 c.p. configuri un solo o più reati: la dottrina prevalente (cfr., per tutti, F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, 10a ed., Milano, 1992, 421 ss), che si condivide, ritiene che si tratti di tre fattispecie distinte, e ciò per la considerazione che né la seconda e né la terza ipotesi possono considerarsi forme circostanziate della prima, in quanto, per la diversità dei soggetti cui si riferiscono, non sono con essa in rapporto di specialità. Con l'effetto, in applicazione dei principi generali, che vi è concorso di reati quando si verifichi più di una delle dette condotte.
In primo luogo, in ordine alla prima ipotesi, va osservato che per costituire "l'abbandono del domicilio domestico" non basta un qualsiasi allontanamento dal tetto familiare, ma è necessario che esso sia accompagnato dall'intenzione di non farvi ritorno, almeno per un lungo periodo di tempo. L'abbandono, inoltre, deve essere ingiustificato (non incorrendo nel reato, ad esempio, chi si allontana per ragioni di lavoro o in seguito a una malattia) e ad esso è parificato il persistente rifiuto di coabitazione; col che, cade nel cono d'ombra del comma 1 il coniuge che si rifiuta (senza giusto motivo) di seguire l'altro nella residenza concordata in precedenza o, in difetto, fissata dal giudice ai sensi degli artt. 144 e 145 c.c..
Assai difficile è, poi, l'esatta identificazione dell'altra modalità con cui il delitto può commettersi, e cioè il fatto di "serbare" una «condotta contraria all'ordine o alla morale delle famiglie». In passato, con soluzioni obiettivamente criticabili, vi si è fatto rientrare l'incesto che non ha causato il pubblico scandalo, l'adulterio non punibile per difetto di querela, il fatto del marito che si ubriaca o gioca d'azzardo e, addirittura, il rifiuto del coniuge all'adempimento del cd. debitum coniugale (soluzione, quest'ultima, da respingere con forza, non solo perché la prestazione sessuale non è un diritto dell'un coniuge verso l'altro, ma anche perché essa non può, per nessun verso, comprendersi nel concetto di assistenza). Pur dinanzi a queste bizzarre prospettazioni, non va, però, mai dimenticato un fatto essenziale: quello che il codice definisce "abbandono del domicilio" oppure "condotta contraria all'ordine o alla morale delle famiglie" non è mai punito di per se stesso, ma solo quando abbia come risultato la sottrazione agli obblighi dell'assistenza familiare. Non basta, quindi, un qualsiasi fatto illecito o immorale a costituire questo reato, in quanto la condotta sarà punibile solo in quanto da essa ne derivi, come conseguenza, la violazione degli obblighi assistenziali inerenti alla responsabilità genitoriale o alla qualità di coniuge. Così, per converso, una tale violazione potrà essere addebitata al soggetto attivo soltanto se avviene attraverso le due modalità di condotta alternativamente indicate dalla norma.
In secondo luogo, relativamente alla seconda ipotesi di cui al comma 2 n. 1, con l'incriminazione della "malversazione" o della "dilapidazione" dei beni del figlio minore o del coniuge si mira a garantire l'onesta amministrazione del patrimonio delle persone predette.
In terzo e ultimo luogo, la terza fattispecie prevista dal comma 2 n. 2, di maggiore diffusione nei nostri tribunali, si verifica allorquando taluno fa mancare i "mezzi di sussistenza" ai discendenti minori, agli ascendenti o al coniuge non legalmente separato per sua colpa (ora, con addebito). In proposito, va precisato che la locuzione "mezzi di sussistenza" non coincide con quella degli "alimenti" disciplinati dal codice civile: essa, infatti, indica ciò che è indispensabile per vivere, mentre i secondi comprendono quanto occorre per soddisfare i bisogni della vita, secondo la condizione economica e sociale del beneficiario (stabiliti, ad esempio, in sede di separazione). Ne deriva che l'art. 570, comma 2 n. 2, c.p., non sanziona la violazione degli obblighi alimentari legalmente accertati, ma solo il rifiutare o far mancare i mezzi necessari per vivere: esula, pertanto, il delitto se il beneficiario, pur avendo diritto agli alimenti, non versa in condizioni di bisogno. Sul punto, infatti, la Suprema Corte afferma che in regime di separazione personale tra coniugi, stante la diversa natura dell'assegno di mantenimento, volto a conservare la situazione patrimoniale quale era in seno al matrimonio, "non vi è interdipendenza tra il reato de qua e l'assegno liquidato dal giudice civile, sia che tale assegno venga corrisposto sia che non venga corrisposto agli aventi diritto". Il provvedimento del giudice civile, infatti, non fa stato nel processo penale, né in ordine alle condizioni economiche dell'obbligato né per quanto riguarda lo stato di bisogno degli aventi diritto, circostanze che devono essere entrambe accertate in concreto. Di conseguenza, la mancata corresponsione, anche parziale, dell'assegno di mantenimento non rende, per ciò solo, responsabile l'obbligato del reato di cui all'art. 570, comma 2, n. 2, c.p., mentre anche il completo adempimento dell'obbligo civile potrebbe lasciare spazio alla configurabilità del reato, dovendosi distinguere dalle nozioni civilistiche di "mantenimento" e di "alimenti" quella dei "mezzi di sussistenza", che si identifica in ciò che è strettamente indispensabile, a prescindere dalle condizioni sociali o di vita pregressa degli aventi diritto, come il vitto, l'abitazione, i canoni per utenze indispensabili, i medicinali, le spese per l'istruzione e il vestiario (Cass. Pen., Sez. VI, 13 febbraio 2007, n. 14103; Cass. Pen., Sez. VI, 10 aprile 2001, n. 27851).
L'obbligo giuridico di prestare gli alimenti, peraltro, costituisce un presupposto di questa specifica fattispecie, col che, mancando tale obbligo, l'illecito non si perfeziona, come non sussiste nel caso che l'obbligo stesso sia stato adempiuto (dall'obbligato, ovviamente, non potendosi escludere la responsabilità se il mantenimento avvenga grazie l'intervento di terzi). Infine, in caso di scioglimento del matrimonio, si ritiene che l'obbligo di assistenza economica tra coniugi permanga fino a quando il beneficiario non passi a nuove nozze o, secondo taluno, non instauri una stabile convivenza di fatto.
La Suprema Corte ha stabilito un importante principio: sui soggetti interessati da un obbligo di assistenza familiare grava un dovere di diligenza, ossia di attivazione al fine di rendere possibile l'assistenza medesima, a nulla rilevando, come nel caso di specie, che il coniuge beneficiario non avesse sollecitato il dovuto, non potendo, tale inerzia, essere interpretata come una rinuncia al proprio diritto o, al più, come prova di assenza di uno stato di bisogno da soddisfare.
In proposito, la Corte ha considerato "antidoveroso" l'atteggiamento del marito, in quanto, preso atto del respingimento dei vaglia postali spediti all'indirizzo usuale della moglie, si è limitato a sospendere il versamento del contributo mensile, senza attivarsi in alcun modo per porre rimedio all'inadempimento, come ad esempio cercare di interloquire coi figli per conoscere la nuova residenza della madre (considerata ipotesi tutt'altro che congetturale).
Quanto, infine, al motivo relativo allo "stato di bisogno" (pretermesso a parere del ricorrente), la Corte ha ritenuto irrilevante tale presupposto, sulla scorta che vi è stata la derubricazione del reato dall'ipotesi di cui al comma 2 n. 2 a quella, meno grave, di cui al comma 1 (il quale non lo richiede). Con la conseguenza che per la consumazione della condotta criminosa è sufficiente la traumatica e prolungata interruzione del contributo materiale alle esigenze di vita della persona offesa, integrando, così, quella violazione dei "doveri di assistenza" cui si riferisce, appunto, la disposizione di cui al comma 1.
Cass. Pen., Sez. VI, 12 settembre 2014, n. 37648

Nessun commento:

Posta un commento